Il reato è bancarotta fraudolenta per l’imprenditore che non riscuote i crediti dell’azienda
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che, con la sentenza (1) n. 32469 del 25 luglio 2013, ha confermato la condanna pronunciata dalla Corte d’appello di Milano a carico di un imprenditore, autore di un grande dissesto finanziario.
Molte le condotte contestate dall’accusa a cominciare dai vari pagamenti effettuati con le carte aziendali per fini personali, per arrivare alle fatture per operazioni inesistenti e alla mancata riscossione dei crediti vantati.
Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che i Giudici del Palazzaccio hanno concentrato la loro attenzione: è anche questo un comportamento che configura una distrazione punibile dalle norme sulla bancarotta.
Non recuperare un credito è reato
La Corte ha accolto un’interpretazione ampia del concetto di patrimonio ai fini della bancarotta fraudolenta patrimoniale. Infatti, in tale nozione, vanno compresi non solo i beni materiali, ma anche le entità immateriali, quali i crediti che avrebbero dovuto concorrere a formare l’attivo patrimoniale.
Il punto in sentenza si legge che «infondata, comunque, è la principale doglianza che attiene all’attribuzione di natura distrattiva alla mancata riscossione di parte di crediti che la società vantava nei confronti delle collegate. E invero, appare ineccepibile la risposta motivazionale resa dal giudice di appello a identica questione sollevata in sede di gravame, sul rilievo che la nozione giuridica di patrimonio di cui depauperamento è apprezzabile ai fini della configurazione della bancarotta fraudolenta patrimoniale, è da intendere in senso lato, comprensivo cioè non solo di beni materiali, ma anche di entità immateriali, quali ragioni di credito che avrebbero dovuto concorrere alla formazione dell’attivo del compendio patrimoniale» Fra l’altro, precisano ancora i Giudici, « avuto riguardo alle peculiarità della fattispecie, è stato ritenuto, con insindacabile apprezzamento di merito, che la parte di credito non riscossa e che avrebbe dovuto figurare nel patrimonio della società, sia stata oggetto di distrazione riconducibile ai paradigmi dell’art. 216 della legge fallimentare »
Ma non è ancora finita!
Negazione dei magistrati anche su un altro motivo chiave presentato dalla difesa e con il quale si lamentava l’applicazione della pena accessoria nonostante la condanna non fosse stata «esemplare». Sul punto il Collegio di Legittimità ha precisato che « la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di imprese commerciali e all’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per dieci anni, prevista dall’art. 216, ultimo comma della legge fallimentare, non è indeterminata e si sottrae, pertanto, alla disciplina di cui all’art. 37 cod. pen.. In altri termini non può essere vincolata alla pena principale. »
L’anno scorso la stessa Corte, con la sentenza n. 134 aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità sollevata in relazione alla questione della mancata previsione di un vincolo fra pena accessoria e pena principale della bancarotta fraudolenta.
[1] Cass. sent. n. 32469 del 25.07.2013.